Home » webzine » Unione Europea » Senza plastiche monouso. Direttiva al voto

“Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli.”

Proverbio Masai

senza plastiche monouso.

Ma il voto di Strasburgo non è così scontato.

di Rossano Matarazzo

Strasburgo: mancano poche ore al voto sulla direttiva antiplastica ed è lunga la lista di oggetti che da domani potrebbero essere banditi dall’UE.

Nel solco italiano e coerentemente con gli orientamenti contenuti dalla strategia europea anti plastica, il 9 ottobre scorso la Commissione Ambiente UE ha approvato la proposta di direttiva “Single Use Plastic Directive” sull’eliminazione delle plastiche monouso. La proposta di risoluzione era stata avanzata alla fine di maggio, e oltre a fissare al 2025 l’obiettivo del 90% di raccolta per le bottiglie di plastica, prevede il divieto di commercializzare oggetti di plastica sintetica, usa e getta, come i cotton fioc, piatti, posate, bastoncini, etc… che infestano il Mediterraneo. Nella direttiva,  al voto nella sessione plenaria dell’Europarlamento di domani Mercoledì 24 a Strasburgo, ci sono poi anche altri divieti per alcuni  imballaggi alimentari che dal 2021 dovranno sparire. Compresi i sacchettini sottilissimi con uno spessore sotto i 15 micron parete, da noi anche se tra un fracco di polemiche e proteste, ormai da quasi un anno messi totalmente al bando.

Tanto consumo, poco riciclo.

La produzione di plastica negli ultimi sessant’anni è aumentata vertiginosamente. Una tendenza in costante crescita destinata, con questi ritmi, a raddoppiare nei prossimi vent’anni. Difatti a parte qualche oggetto scomunicato da politiche di riduzione, fra edilizia, auto e packaging c’è una quantità di cose enorme che impiega materie plastiche e che continueranno per un bel po’ a non essere vietate.   La plastica è un materiale economico, leggero e resistente,  ma ha un forte impatto ambientale in termini di emissioni di CO2 quando viene prodotta e poi se viene riciclata o smaltita. Di plastica in  tutto il mondo se ne produce e consuma tanta – 380 milioni di tonnellate annue – però se ne ricicla poca, appena il 15% e forse il 25% è avviata a recupero energetico. Nel complesso, si stima, perché  dati certi sulla gestione del fine vita della plastica non ce ne sono, che a malapena un  20%  sia riciclata in modo appropriato.  Anche in Europa,  la media di riciclo è bassa: arriva al 31,1% , ma è compresa quella rigenerata fuori dall’UE (spedita in Cina, fino al blocco e la chiusura alle importazioni di luglio 2017). Il resto finisce in discarica, negli inceneritori o si accumula nell’ambiente terrestre e marino. Le materie plastiche hanno un mucchio di applicazioni, ma il mercato più grande (39,9%) è del packaging che con il passaggio ai più efficienti contenitori monouso, ne ha fortemente accelerato la crescita. Una produzione e consumo quella degli imballaggi usa e getta, aumentata insieme alla quantità di plastica e di scorie sparse sul suolo e nel mare.

Buste e sacchetti di plastica i rifiuti più dispersi nell'ambiente.

Fra i rifiuti più dispersi nell’ambiente, uno degli elementi di consumo che si sono maggiormente diffusi nel mondo: la busta di plastica. Solo in Europa si calcola un consumo spregiudicato di circa 100 miliardi di sacchetti ogni anno. Nel Mondo non si contano più. In Italia, la disciplina sulle buste di plastica, anche rispetto alle direttive comunitarie è stata sempre pioneristica. Ma nonostante l’intraprendenza anticipatoria e l’audacia restrittiva dimostrata dal legislatore italiano, l’influenza sui comportamenti è stata relativa e nel nostro Paese il consumo spavaldo di sacchetti usa e getta, già elevatissimo, è rimasto tale . E’ cambiato solo il tipo di sacchetto che adesso è biodegradabile e compostabile, con un contenuto di materia prima rinnovabile almeno del 40% come da norma Uni En 13432. Un consumo favorito in particolare dall’evoluzione normativa, culminata nel DL 91 del 2017 e in vigore dal 1° gennaio scorso con il quale sono stati conformati agli  obblighi e divieti degli shopper, i sacchettini leggerissimi dell’ortofrutta che ora si pagano e sono solo bio.

E venne la soluzione.

Quella di estendere il campo di applicazione della norma europea anche ai sacchetti superleggeri, sotto i 15 micron, utilizzati per la pesata e la prezzatura delle merci sfuse come frutta e verdura, è una scelta autonoma del nostro parlamento. Propugnata frettolosamente per incentivare un consumo più responsabile dei beni che contengono materie plastiche ma che, tuttavia, agisce in modo contorto. Chiariamo una cosa, sebbene per loro stessa natura i polimeri biodegradabili si degradino e deteriorino naturalmente, biodegradabile non è sinonimo di sostenibile e neppure di non tossico  nel senso assoluto.    La produzione di bio plastica oltreché richiedere pesticidi e fertilizzanti, implica l’uso di combustibili fossili sotto diverse forme, e a conti fatti ci costa di più anche d’acqua e di suolo, sottratto alle coltivazioni ad uso alimentare.   Nemmeno esiste un’adeguata letteratura scientifica riguardo gli effetti diretti e indiretti del processo di degradazione delle bio plastiche, che potrebbero essere ugualmente dannose sui sedimenti marini e sull’intero habitat. Eppure  polimeri ottenuti da fibre vegetali come il riso o il Mater-Bi® estratto dal mais, sono materiali considerati sostenibili e percepiti dall’opinione pubblica come la soluzione sostenibile che, quasi quasi, al giusto prezzo, giustifica anche un consumo disinvolto. Tant’è che per la legge italiana l’obbligo di impiego di bio plastiche nei sacchetti monouso, si accompagna all’obbligo di utilizzo e commercializzazione degli stessi.

Le tante facce della norma.

Secondo l’attuale nostra disciplina,  la sensibile riduzione di utilizzo dei sacchetti chiesta dall’UE, troverebbe la sua ratio nella sostituzione di bio materiali e nell’imposizione di un prezzo, attenzione non del costo, scaricato sul consumatore. Un balzello in tutta regola determinato in sostanza dall’obbligo d’uso di un imballaggio primario indispensabile per le merci sfuse, che pure dovrebbero essere vendute al netto dell’imballo. Il sacchettino infatti è in realtà l’incarto di una vendita al minuto che, sempre per legge, sarebbe una tara. In ogni caso non è una tassa, come è stata invece definita; il prezzo che paghiamo non va nelle casse dello Stato,  lo incassano aziende private. E’ piuttosto una prestazione imposta che si configura nel momento dell’acquisto. Una specie di servizio a pagamento . Naturalmente quella di far diventare tutti i sacchetti bio e a pagamento, non è un’imposizione dettata dall’UE. E’ un obbligo che è stato infilato dall’allora governo Renzi, nel DL Mezzogiorno all’art. 9 bis della legge di conversione n.123 del 3 agosto 2017, con l’appiccagnolo di recepire una precedente direttiva europea.

Conclusioni

La direttiva UE 2015/0720 in questione però non prevede affatto divieti per le bustine trasparenti dell’ortofrutta, che quindi per l’Europa potevano, almeno fino a quel momento, pure non essere biodegradabili e gratuite. Né il testo di Bruxelles entrava nel merito del riuso dei bio sacchetti che ritiene essere una questione sanitaria di competenza dei vari Stati. Impone invece una stretta sulle borse della spesa. Quelle di plastica usate per l’asporto delle merci dal punto vendita. In Italia già proibite dal 2012.   Non c’è dubbio che l’Italia in materia di regole sui rifiuti di plastica, in particolare applicate alla filiera del packaging, si sia sempre mostrata all’avanguardia . In questo caso però se da una parte l’obbligo di utilizzo di materie prime biodegradabili forse risolve il problema dei tempi di smaltimento, dall’altra non riduce affatto gli impatti ambientali che in realtà sono solo meno visibili.  Non soltanto perché il problema sta a monte. Nelle fonti fossili nel frattempo utilizzate al posto delle rinnovabili, nell’impiego di pesticidi e fertilizzanti necessari, almeno quanto la maggiore quantità d’acqua e di suolo, alla produzione di biomasse. Pure per l’assenza di studi sugli effetti di degradazione della bio plastica nei diversi contesti. I materiali biodegradabili, per ora solo dei sacchetti monouso, infatti, aldilà di tutto inquinano e devono essere comunque gestiti nell’ambito del ciclo di raccolta differenziata. C’è poi la questione sanitaria. Gli imballaggi fra gli utilizzi hanno quello di preservare e conservare i cibi e gli alimenti che consumiamo per evitare che marciscano.  Un’efficienza questa difficile da sostituire con le alternative attuali. E’ chiaro che la tutela del bene ambiente non possa essere lasciata solo alla coscienza dei singoli, ma occorrano politiche congiunturali e azioni coordinate, che definiscano priorità e indichino strumenti. Il voto di domani non  è poi così scontato.

rossano matarazzo©riproduzione riservata

 

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