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Perfezione del Magistero di Cristo
Il giorno 23 giugno è celebrata la festa del Sacro Cuore di Gesù, ricorrenza da lui voluta apparendo ad una piccola suora francese nel secolo XVII.
La suora ne fa parola alla sua superiora e quindi al monsignore visitatore del convento, il quale, convintosi della bontà e dell’autenticità della proposta, a sua volta convince il vescovo competente.
Ma questa festa è assai significativa perché ci ricorda la Passione e la morte del Signore, che è la misura dell’infinito amore che ha per ciascuno di noi, nonostante la nostra indifferenza o, peggio l’odio nei suoi confronti.
Una figura, quella di Cristo, attuale.
Le persecuzioni e le uccisioni inflitte continuamente a chi professa la nostra religione, che oggi sono accentuate dagli estremisti di altre religioni, conferiscono nuova attualità alla figura del Cristo.
Perché Gesù è stato mal compreso e perseguitato nei secoli, pur se apportatore di un messaggio di pace?
Il Signore con una sottolineatura provocatoria ha annunciato il suo messaggio come una lieta novella per i poveri, ai quali ha rivolto la prima parola di consolazione e di salvezza, la sua prima beatitudine.
Non solo per coloro che sono spiritualmente poveri, come appaiono nel Vangelo di Matteo, ma soprattutto per i veri poveri (del vangelo di Luca), per coloro che sono realmente tali, per chi piange, per chi ha fame, per gli svantaggiati, gli emarginati, i derelitti, i reietti, gli oppressi.
Gesù stesso fu povero, fu un entusiasta della povertà fra la gente umile, fino al patibolo; fu un nomade che conduce una vita improntata alla massima frugalità.
I destinatari della sua predicazione sono tutti appartenenti al ceto più umile, i “piccoli”, i “semplici”, gli incolti, gli ignoranti, privi di cultura religiosa e gli incapaci di un comportamento morale, ben diversi dai “sapienti” e dagli intellettuali del tempo.
"Guai ai ricchi!"
Gesù si schiera dalla parte dei poveri, degli afflitti, degli affamati di tutti i tempi, degli uomini insignificanti, senza successo né potere.
I ricchi che accumulano tesori che la ruggine e le tignole corrompono, il cui cuore è incatenato alla ricchezza vengono proposti come esempio da rifuggire.
Successo e ascesa sociale non fanno parte del vocabolario di Gesù, che esalta chi si umilia.
Per Gesù sono estranei quelli che legano la propria vita ai beni transitori, quelli che attaccano la propria vita al danaro, come fosse un idolo da adorare (“Guai ai ricchi!”).
E’ inutile tentare di attenuare la portata della condanna: la ricchezza è sempre pericolosa ai fini della salvezza, mentre la povertà non è un male, pur se Gesù non teorizza lo spossessamento dei ricchi e una sorta di dittatura del proletariato, né predica vendetta contro gli sfruttatori, gli espropriatori e gli oppressori, ma esalta la pace e la rinuncia al potere.
La fame non è beatitudine.
Gesù non pretende che i suoi seguaci rinuncino ai beni posseduti, né consiglia di riunire i beni in una proprietà collettiva, ma solo di farne dono ai poveri. Gesù tuttavia non riveste la povertà di una patina religiosa, né la trasfigura, perché la fame implica la miseria, e non è beatitudine; né annuncia una spiritualità fine a se stessa e tale da sconfiggere l’ingiustizia o con la prospettiva della consolazione nell’aldilà.
Per lui i ricchi non suscitano rancore, perché la sua soluzione per i poveri, i sofferenti e gli affamati, in mezzo alla miseria del presente è il preannuncio della salvezza e della beatitudine futura. La “beatitudine” è, infatti, una promessa: una promessa che si avvera per chi, invece di limitarsi ad ascoltarla, la fa propria con fede e fiducia, perché il futuro che promette Dio è, già da subito, consolazione ed appagamento.
Una nuova scala di valori.
Ovunque vada il povero, Dio è con lui e lo precede e trasforma già da ora la sua situazione, lo fa diventare capace di una nuova disponibilità all’aiuto dell’altro, senza esaltazione e senza invidia per chi possiede di più.
L’amore del povero non è così soltanto un’attesa passiva, perché sa che se Dio lo precede, lui deve avere sempre una superiore sorprendente serenità ricca della fiducia nel Dio che provvede anche al suo cibo e al suo vestito, se è vero che il Signore riveste i gigli del campo e il povero vale ben di più del fiore del campo.
Anche nella visione fatta propria dall’evangelista Matteo, la povertà “in spirito” si identifica nell’”atteggiamento di vita sobria, senza pretese, vissuta con fiducia e serenità”, (Kung) antitetica a quella immodesta, pretenziosa e inquieta che talvolta si trova anche tra la gente povera.
Deve essere una libertà dall’inquietudine dei beni materiali, una nuova scala di valori al cui vertice non vi sono i beni materiali.
Non di solo pane vive l'uomo
Gesù sferza sia l’ingordigia del ricco che l’invidia del povero, perché la vita dell’uomo non è fatta di solo pane e perché l’uomo deve mettere al primo posto il regno di Dio, se vuole che anche le sue esigenze umane vengano appagate.
E’ vero che la massa cerca solo pane e sazietà e si allontana da Dio che non predica né una società del benessere e neppure una formula di comunismo utilitaristico. Non è, però, da condividere la formula di B. Brecht: “Prima viene il mangiare, poi la morale” o quella del filosofo Seneca: “primum vivere, deinde philosophari”, ma “ Prima il regno di Dio, poi tutto il resto”.
Gesù non si sottrae al contatto con i peccatori, con chi ignora o trasgredisce la legge: sosta in casa di pubblicani o di noti peccatori, si fa baciare i piedi da una prostituta, sotto lo sguardo scandalizzato dei convitati, perdona la donna sorpresa in flagrante adulterio e da Gesù stesso sottratta agli ipocriti custodi della legge, ha simpatia per i peccatori e mostra la sua solidarietà alle persone di scarsa moralità. Soprattutto nel guarire o nel perdonare usa parole che raggiungono il bersaglio: “I suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha amato molto”; “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra”; “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”.
Perdono incondizionato.
Tuttavia, Gesù non scusa certe colpe, ma si oppone al fatto che determinati gruppi o infelici minoranze vengano socialmente emarginati; non si abbassa al livello di questi ultimi, ma li innalza al proprio, sedendosi al loro stesso tavolo volendo sottolineare nei confronti di essi non solo amicizia, ma la fiducia, la riconciliazione e la pace. Incurante che la gente pensasse che avesse voluto demolire i principi morali fino ad allora validi.
Gesù è prodigo nel perdonare, ma non nel modo ebraico che sapeva concedere il perdono a chi avesse dato prova di aver cambiato radicalmente vita e di essersi definitivamente emendato. Suscitando scandalo, Gesù perdona proprio ai peccatori, ai traditori, agli imbroglioni, a scapito dei giusti; perdona e restituisce ogni privilegio a quel figlio che ha dissipato tutti i suoi beni con le prostitute; annuncia e proclama la festa che si fa in Cielo per un peccatore pentito alla fine della vita, più che per i novantanove giusti che hanno molto faticato per mantenersi irreprensibili agli occhi di Dio; giustifica il padrone che dà lo stesso salario di quanti hanno lavorato l’intera giornata, all’operaio che ha lavorato un’ora sola.
Vi è un bellissimo romanzo di Bruce Marshal, “Ad ogni uomo un soldo”, che descrive mirabilmente l’esistenza di una persona non credente che aveva operato per tutta la vita con una certa coscienza morale e che, alla fine dell’esistenza, comprende la vanità delle cose del mondo e si getta nella braccia del Signore.
Settantasette volte sette.
Gli ebrei stimavano ingenuo e pericoloso un tal modo di predicare e di operare di Gesù, che sovverte ogni priorità, che proclami gli ultimi primi e primi gli ultimi, che proibisce il giudizio e la condanna del prossimo, che bandisce la vendetta, che predica l’amore per il nemico e il perdono a tutti i costi e non sette volte, ma settantasette volte sette.
A ognuno offre una possibilità ed ognuno è già accolto prima ancora che si converta. E’ graziato il peccatore più grande, purché si converta, con un giudizio che è ben più perfetto di ogni giudizio umano, perché non pone confini all’amore. La grazia supera il diritto ed impone il diritto della grazia, purché il peccatore manifesti fede e fiducia in Dio. Questa possibilità di salvezza è l’ultima occasione, l’occasione della vita, perché il Signore passa e non torna.
Occorre stare molto attenti: se vogliamo salvare la nostra vita (con le inclinazioni e le opere malvagie), la perderemo; perché molti sono i chiamati ma pochi gli eletti e la salvezza è pur sempre un miracolo della grazia.
Il banchetto divino è imbandito per tutti: peccatori, storpi, ciechi, tribolati, oppressi, siamo tutti chiamati: è la sorpresa della grazia.
Davanti a Dio siamo tutti nudi. Chi può dirsi così giusto da non dover attendere il perdono? Chi può dire di non aver mai contratto debiti con la divina Giustizia? I peccatori sono più veritieri dei “giusti”, perché non nascondono la loro condizione.
Gesù dà ragione a loro e torto a quelli che ritengono di essere sempre dalla parte del giusto.
Perdono senza riserve.
Perché perdonare invece che condannare , perché la grazia prima che la giustizia? Perché Dio stesso non condanna, ma perdona e antepone la grazia al diritto; è il re che dispensa sempre la sua misericordia, il creditore che rimette il debito, per grande che sia, il pastore della pecora smarrita, il padre che va incontro al figlio perduto e l’abbraccia. L’uomo deve allora riprodurre il modello del padre, solo così si può comprendere la preghiera al Padre: “Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
E’ una grazia che il padre abbracci il figlio perduto e faccia preparare per lui la festa più grande, e sono grazie tutte le premurose attenzioni per il servo malato, il debitore, il pubblicano, la pecora smarrita. Un perdono senza riserve, senza ricordi del passato e senza condizioni, senza se e senza ma: non castigo per i malvagi, ma giustificazione dei peccatori: questo è il regno di Dio e la sua giustizia.
Gesù osa sfidare i “benpensanti”sul terreno della grazia, loro che ritenevano già un traguardo della civiltà giuridica praticare la legge mosaica che imponeva “occhio per occhio, dente per dente”; e lo fa dotato del potere conferitogli da Dio Padre ed esercitato con grande autorevolezza.
Per questo è stato messo a morte
Mario D’Antino © riproduzione riservata