
Se da un lato è il principale compito delle guide morali intellettuali e della politica occuparsi di mali e sofferenze che ci affliggono, dall’altro quello che ci rifila il dibattito pubblico sulla nostra vita comune, è un capolavoro di ambiguità.
Un lamento scalpellato da una serqua di sagrestani che offre illusorie consolazioni, e intanto affina il nostro pensiero alla povertà e le questioni critiche collegate.
E difatti la conversazione collettiva, anche quella più appuntita, tra ridondanza di contenuti e correlazioni, è praticamente un sottofondo di retorica melensa, la cui unica capacità è quella di arrivare fino al cervello.
Dalla litania alla carità di Stato.
Ma la litania che più di tutte esalta la piramide dell’informazione, e stordisce, è il PIL.Il “cheat code” che risana il bilancio e confina la discussione al dominio di analisi e statistiche; o, nel migliore dei casi, al giudizio di opinioni e interpretazioni – più o meno raffinate – di numeri e dati.
Montagne di calcoli e previsioni astrusi su cui si discetta tanto e che, se ci sono costi occulti, non hanno senso.
In tutti i casi dalla glorificazione del PIL che sale, all’avvilimento se va in caduta, fra luoghi comuni e presunzioni private, il quadro di sintesi è piuttosto omogeneo: si finisce sempre alla carità di stato.
E chissenefrega se avevi altre ambizioni.
Una plebe bracciantile sottomessa.
La statura del PIL è così imperativa che per politici ed economisti la sua crescita è la soluzione di qualsiasi problema. Assicura benessere e ricchezza.
Non è una risposta, ma abbiamo così tanto bisogno di PIL per stare a galla, che è l’unica ammessa.
Idealisti della sobrietà? Non credo proprio. Soltanto spin doctors e officials che forniscono pretesto e prospettiva d’osservazione, a cui nessuno per una ragione o un’altra si sottrae.
Il punto
Tornando sul punto, no anzi lo zero virgola, l’unico vero obiettivo di qualsiasi governo: la percentuale di PIL che chiamano crescita. Insomma il numero davanti al quale si inchinano tutti.
Vi pare normale?
A me no, insistere su un esercizio statistico così scollato dalla realtà, lo trovo un pessimo passatempo.
D’altra parte altrettanto in grande dovrebbe allora essere anche scritto che crescita economica, non significa che poi la distribuzione della ricchezza è equa tra la popolazione.
Un’economia può pure essere che cresce come adesso.
Semplicemente solo perché i ricchi accumulano e diventano sempre più ricchi, mentre le persone comuni per mantenere un minimo standard di vita, sono costrette a sgobbare e basta.
O magari cresce solo per effetto riflesso di congiunture favorevoli, senza produrre impatti espansivi sull’economia reale come accade qui da noi.
Insomma, si può raccontare un po’ come si vuole la storia del PIL. Ma resta un metodo è empirico, alieno a qualsiasi ragionamento. C’è poco da fare.
Rispecchia solo scelte fatte dalle istituzioni economiche, ed è un atto volontario dei governi prenderlo a guida nelle variabili che essi stessi decidono.
Un dogma per l'austerità.
Il PIL, perciò, non è un dogma, ma ce lo fanno credere per tenere la sua crescita al centro delle politiche nazionali e legittimare politiche fiscali che, se non funzionano consentono sempre rapine in bolletta, e aumenti automatici.
Del resto la sola cosa importante è persuaderci che qualunque sia il prezzo da pagare. Niente può esimerci dalla progressione continua del PIL; anche se non ingloba la maggior parte delle cose che chiediamo, e tantomeno include solo cose buone. Un esempio?
Ignora una mamma che cresce i figli e fa la casalinga, perché non la considera un’attività produttiva, e però quota i danni di un terremoto, o le spese funerarie perché quelle si, qualsiasi sia l’impatto sociale o ambientale che ne derivi, sono invece attività che contribuirebbero all’aumento di PIL.
E questo perchè siamo un’economia avanzata.
Maria Cristina Franconi
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